Cerimonie e riti dell'antica Roma, Matrimonio, funerale, Saturnali e Lupercali

« Older   Newer »
  Share  
FatoPompei
view post Posted on 18/6/2010, 10:04




Matrimonio


A Roma, esistevano tre diverse forme di matrimonio.

1) La confareatio (offerta solenne da parte degli sposi di una torta di farro a Giove Capitolino), alla presenza del Sommo Pontefice e dell’officiante del Dio Giove (Flamen diălis).
2) La Coëmptio, vendita fittizia del padre della sposa che emancipava la propria figlia al marito.
3) L’Usus, che poteva essere dopo la coabitazione ininterrotta per un anno.

Era preceduto da un fidanzamento che consisteva in un impegno reciproco che i fidanzati assumevano, con il consenso dei loro rispettivi padri e davanti ad un certo numero di parenti ed amici (che intervenivano come testimoni e festeggiavano con un banchetto a conclusione della festa). In concreto il fidanzato consegnava alla fidanzata dei regali ed un anello simbolico che la fidanzata aveva cura di infilarlo nel suo dito anulare (perché è l’unico dito dove si trova un nervo sottile che parte dall’anulare ed arriva al cuore, organo principale di corpo umano) E’ questo un momento solenne con l’impegno formale che si consacrava successivamente con il matrimonio. Nel giorno stabilito per la celebrazione, la fidanzata, i cui capelli sono stati raccolti in una reticella rossa, veste l’abito richiesto dall’uso: intorno al corpo una tunica senza orli (tunica recta) fermata da una cintura di lana a doppio nodo (cingulum herculeum), sopra un mantello (palla) color zafferano, ai piedi sandali della stessa tinta, intorno al collo una collana di metallo; sulla testa un velo color arancio fiammeggiante (flammeum) sul velo era poggiata una corona intrecciata di maggiorana e di verbena o mirto e fiori d’arancio. Dopo aver accolto il fidanzato con i suoi parenti, tutti si recano nell’atrio della casa o in un santuario vicino per offrire un sacrificio agli Dei. Quando il sacrificio della bestia scelta è stato compiuto interviene il l’augure (auspex) che dopo aver esaminato le viscere dell’animale sacrificato offre garanzia del favore degli auspicii.
Non appena egli ha pronunziato le parole che proclamano il favore degli Dei, gli sposi si scambiano in sua presenza il consenso reciproco dicendo: Ubi tu Gaius, ego Gaia.
Allora il rito è compiuto.
Tutti i presenti prorompono in acclamazioni augurali: Feliciter. La loro gioia si prolunga in un festino che cessa al finir del giorno, quando è venuto il momento di sottrarre la sposa ai suoi parenti.
Inizia il corteo nuziale, suonatori di flauto, seguiti da cinque tedofori (portatori di fiaccole) aprono la marcia, cammin facendo il corteo si effonde in canzoni allegre e licenziose. Quando è prossimo ad arrivare a destinazione, vengono lanciati ai ragazzi che sono stati attirati dall’affluire della gente, delle noci, quelle noci con cui la sposa giocava nella sua infanzia. Avanti a tutti muovono tre amici dello sposo (paraninfo) uno, il pronubus, brandisce la torcia nuziale fatta con biancospini intrecciati, dietro lui gli altri due si impadroniscono della sposa, la sollevano tra le braccia e le fanno superare senza che i piedi tocchino terra, la soglia della nuova casa (in ricordo del ratto delle Sabine).
Tre amiche della sposa (paraninfe) entrano dopo di lei, due portano una il fuso e l’altra la canocchia (emblemi delle sue virtù ed attività domestiche), la terza con acqua e fuoco. La “pronuba”, un anziana matrona, la conduce verso il letto nuziale, dove rimane ad attenderla lo sposo.

Funerale


Nell’antica Roma la morte era una faccenda pubblica: più fastoso era il funerale, più potente erano il defunto e la sua gens. Seppellire decorosamente i morti era un principio fondamentale per i romani: il destino dell’anima di un defunto incombeva su familiari e amici, se un cadavere non veniva sepolto, o le esequie non erano celebrate secondo il rituale specifico, si pensava che l’anima del defunto non trovasse pace e continuava a vagare sulla terra angosciando i vivi. La gloria di un individuo ricadeva sulla sua famiglia, i parenti avevano l’obbligo di dimostrare le virtù civiche dello scomparso, esaltando la propria famiglia. I riti funerari consistevano in quattro parti fondamentali:

1) L’esposizione pubblica del cadavere;
2) Il corteo;
3) L’elogio funebre;
4) La cerimonia del rogo;

L’esposizione pubblica del cadavere: Al momento del decesso, avveniva il rito dell’ultimo saluto: uno dei familiari coglieva l’ultimo respiro del moribondo con un bacio e gli chiudeva gli occhi, ripetendo tre volte il suo nome. A tutto il resto, dalla preparazione della salma fino alla deposizione delle ceneri pensava di solito un’impresa di pompe funebri, i Libitinarii. Prima di essere vestito dei suoi abiti da parata il corpo del morto veniva lavato e profumato con unguenti, e successivamente veniva composto nel lectus funebris nell’atro della casa (molto diffuso era il rito di mettere in bocca del morto una moneta, “l’obolus Charontis”, per pagare a Caronte il passaggio all’Ade e disporre sul cadavere fiori e bende.

Il Corteo: La processione (pompa) era ordinata e diretta dal “Dissignator”.Lo spettacolo, era di grande magnificenza e solennità: il corteo era preceduto da suonatori di flauto, mimi e danzatori, ma anche da donne (Préfiche) che levavano altissime gride e pianti per esprimere pubblicamente il dolore dei famigliari. Davanti al feretro andava un gruppo di uomini, che rappresentavano gli antenati del defunto. Ogni famiglia conservava in appositi tabernacoli negli atria delle loro case le maschere degli antenati morti.Polibio, nelle sue “Storie” (libro VI, cap. 53) dice: Infatti, chi può esservi, che vedendo riunite le immagini, per così dire vive e animate, di quei grandi uomini onorati per il loro merito, non venga stimolato da un tale spettacolo? Si può vedere qualcosa di più bello?” Immediatamente dietro le maschere seguiva la bara con il morto, circondata da littori con fasci e vestiti di nero, e seguita dai familiari in lutto. In ultimo, a chiudere il corteo, venivano i portatori di cartelli, che ricordavano ai passanti con grandi scritte i fatti illustri della vita del defunto.

L’elogio funebre: La processione percorreva tutta la città e sostava nel Foro dove aveva luogo l’elogio funebre, la commemorazione del defunto pronunciata dal figlio o da un parente molto stretto. La “laudation funebris” metteva in rilievo il valore e le imprese che il morto aveva compiuto durante la vita con l’obiettivo di emozionare la folla al punto che il lutto che ha colpito la famiglia del defunto appare come il lutto di tutta la città (Polibio). La cerimonia del rogo.
Successivamente il morto veniva accompagnato sul luogo dell’estremo ufficio, il rito prevedeva che il cadavere venisse bruciato sul rogo. Il defunto veniva deposto insieme al feretro, con oggetti, vestiti, armi che gli appartenevano o gli erano stati cari. Un parente stretto dava fuoco alla pira, mentre le persone in lutto gettavano balsami e fiori. Le ceneri ancora ardenti venivano spente con il vino e collocate in un urna. Questa veniva depositata in un colombario con un’iscrizione che ricordava il nome del defunto.

La sepoltura era seguita dal banchetto funebre, il Silicernium, a cui erano invitati tutti i partecipanti del corteo. I familiari offrivano cibi speciali, di cui un parte veniva posta nella tomba per sottolineare che si trattava in primo luogo di un pasto offerto al defunto e anche la funzione di rito di purificazione per i familiari. Tornati a casa, i parenti mettevano la maschera del defunto (presa con un calco in gesso al momento della morte e modellata in cera) nel tabernacolo vicino a quella degli antenati. Il funerale era di solito a spese della famiglia, i meno abbietti, che non erano in grado di affrontare le spese, avevano possibilità di entrare a far parte delle corporazioni (di solito di mestieri). Dei poveri si occupava lo Stato, i loro funerali avevano luogo di notte ed erano molto sbrigativi.

I Saturnali


I Saturnali erano un'antica festività della religione romana dedicata all'insediamento nel tempio del dio Saturno e alla mitica età dell'oro; si svolgevano dal 17 al 23 dicembre, come stabilito da Domiziano. I saturnali avevano inizio con grandi banchetti, sacrifici, a volte orge; i partecipanti usavano scambiarsi l'augurio io Saturnalia, accompagnato da doni simbolici. Durante questi festeggiamenti era sovvertito l'ordine sociale: gli schiavi potevano considerarsi temporaneamente degli uomini liberi, e come questi potevano comportarsi; veniva eletto, tramite estrazione a sorte, un princeps -una sorta di caricatura della classe nobile- a cui veniva assegnato ogni potere. Il "princeps" era in genere vestito con una buffa maschera e colori sgargianti tra i quali prevaleva il rosso (colore degli dei) e poteva ricordare il nostro Babbo Natale. Era la personificazione di una divinità inferica, da identificare di volta in volta con Saturno o Plutone, preposta alla custodia delle anime dei defunti, ma anche protettrice delle campagne e dei raccolti.
In epoca romana si credeva che tali divinità, uscite dalle profondità del suolo, vagassero in corteo per tutto il periodo invernale, quando cioè la terra riposava ed era incolta a causa delle condizioni atmosferiche. Dovevano quindi essere placate con l'offerta di doni e di feste in loro onore nonché indotte a ritornare nell'aldilà, dove avrebbero favorito i raccolti della stagione estiva. Si trattava di una lunga "sfilata di carnevale" (perché a tale festa sono riconducibili i saturnalia e tutti i riti agrari successivi). Catullo definiva i Saturnalia “i giorni più belli dell’anno“. La festa era dedicata a Saturno, dio dell’”età dell’oro“, descritta da Esiodo ne “Le opere e i giorni” come la prima età mitica nella quale «…un’aurea stirpe di uomini mortali crearono nei primissimi tempi gli immortali che hanno la dimora sull’Olimpo. Essi vissero ai tempi di Crono, quando regnava nel cielo; come dèi passavano la vita con l’animo sgombro da angosce, lontani, fuori dalle fatiche e dalla miseria; né la misera vecchiaia incombeva su loro [...] tutte le cose belle essi avevano». In questa “aurea aetas” tutti gli uomini vivevano quindi in pace e senza bisogno di lavorare, esattamente come nel Paradiso Terrestre (primo parallelismo con il Cristianesimo).
L’inizio dei Saturnalia era dato dallo svolgimento di riti religiosi davanti al Tempio di Saturno, nel Foro, cui seguivano dei banchetti (lectisternium) e festeggiamenti che coinvolgevano tutta la popolazione romana e che sono facilmente assimilabili ai festeggiamenti carnevaleschi. Questa sorta di carnevale era caratterizzata dalla più completa libertà di comportamenti: in omaggio al ricordo dell’uguaglianza dei “tempi d’oro”, veniva concesso agli schiavi un periodo di libertà ed essi potevano così permettersi di banchettare assieme ai propri padroni, da cui potevano addirittura pretendere di essere serviti a tavola, in quello che era un vero e proprio scambio di ruoli. In effetti agli schiavi era perfino concesso ubriacarsi, stando alla stessa tavola con i padroni, senza poter essere ripresi per un comportamento che in altre occasioni avrebbe portato frustate o altre punizioni corporali e, in casi ancora più gravi, la morte. Il capovolgimento gerarchico prevedeva che i padroni si scambiassero di posto con i propri schiavi, li servissero a tavola e che non potessero cibarsi essi stessi finché gli schiavi non avessero mangiato e bevuto a loro piacimento. Senza dubbio nella settimana dei Saturnalia Roma era in preda a caos e confusione. Gli schiavi andavano in giro per la città mascherati e con in testa il berretto frigio (che normalmente veniva posto sul loro capo soltanto in occasione del bramato momento della liberazione, quando cessavano di essere schiavi e diventavano cittadini romani, liberi a tutti gli effetti) abbandonandosi alla più sfrenata baldoria, mentre musici e danzatrici, attori e saltimbanchi improvvisavano ovunque i loro spettacoli. In quei giorni si potevano fare scommesse e giocare d’azzardo e dare luogo a scherzi d’ogni genere. Tipico della festa era anche lo scambio dei doni, per lo più candele e statuette di terracotta o di cera o perfino di mollica di pane, che alludevano agli uomini soggetti alla sorte e al “gioco” degli dèi. Questo scambio di doni somiglia molto a quanto avviene nel nostro Natale. Un altro stupefacente parallelismo con i giorni nostri è relativo al fatto che i festeggiamenti del “Sol Invictus” erano immediatamente seguiti dalle “Sigillaria“: una festività dedicata ai bambini in occasione della quale si regalavano loro dadi, anelli e piccoli oggetti in pietra o tavolette dipinte… praticamente la nostra Epifania.

I Saturnali si celebravano a dicembre, l'ultimo mese dell'anno ed erano ufficialmente proclamati il 17 dicembre. Il primo giorno c'era la processione fino al tempio di Saturno posto nel Foro alle falde del Campidoglio e si faceva sull'Ara il solenne sacrificio cui si assisteva a capo scoperto e durante il quale si scioglievano le bende di lana che avvolgevano i piedi del simulacro di Saturno; Saturno rimaneva slegato ad adempiere le sue funzioni di fondatore di una nuova era fìno alla fine dell'anno; al rinnovo del ciclo annuale, il simulacro veniva nuovamente legato ed un suo sostituto, il Rex Saturnaliorum, veniva simbolicamente ucciso. Seguiva il lettisternio (dal lat. lectus, "letto" e stemere, "stendere" - cerimonia religiosa dell'antica Roma che consisteva nell'offrire un banchetto agli dèi le cui statue erano state poste a giacere su letti intorno ad una tavola riccamente imbandita; il lectistemium veniva celebrato in onore di Giove e dei Dodici Dèi in occasione sia di solenni feste religiose che di calamità. Il banchetto pubblico, dove tutti i convenuti si scambiavano brindisi e auguri alla luce delle candele, era preparato dagli epulo-nes, i mèmbri di quattro grandi corporazioni che poi consumavano i raffinati cibi offerti agli dèi. I fedeli facevano la veglia per tutta la notte per attendere e salutare la nascita del Sole nuovo. Il tutto a spese dello Stato. In epoca arcaica la festa si svolgeva in quest'unico giorno; in seguito la durata delle celebrazioni fu portata a tre giorni da Cesare, a quattro da Augusto, a cinque da Caligola e, infine, a sette da Domiziano. Fin dall'età repubblicana i Saturnali si celebravano a Roma, assumendo importanza maggiore nell'epoca imperiale, diffondendosi rapidamente in tutta la penisola. Durante i Saturnali i tribunali e le scuole erano chiusi: era proibito iniziare o partecipare a guerre, stabilire pene capitali e, comunque, esercitare qualsiasi attività che non fosse un festeggiamento. Per gran parte della popolazione, che svolgeva lavoro agricolo, i Saturnali annunciavano un lungo periodo di riposo in attesa della primavera. Come possiamo notare, molte delle usanze dei Saturnali si sono conservate fino ad oggi e caratterizzano il nostro modo di festeggiare il Natale: accendere le luci (delle candele prima, elettriche oggi), il banchetto, lo scambio di doni, la celebrazione religiosa, regalarsi i ceri, i datteri, le noci e cibi dolci come il miele, fare i brindisi e gli auguri, la chiusura delle scuole, la lunga festa. I saturnali romani col tempo assunsero connotazioni licenziose e orgiastiche, connesse a gozzoviglie e copiose crapule. La categoria del carnevale, le cui origini si fanno risalire proprio alla festa dei Saturnali, è metafora, per antonomasia, di pazza e allegra trasgressione, con più implicazioni, tutte riconducibili allo scompaginamento dei ruoli sociali. Saturno il Dio contadino…un’altra leggenda racconta che il Dio Saturno fu cacciato dall’Olimpo da Giove e si rifugiò nel Lazio, sul colle del Campidoglio, dove più tardi sarebbe sorta Roma. Saturno, il Dio errante, divenuto re del Lazio, dette avvio alla felice Età dell’Oro: egli insegnò agli uomini a coltivare i campi e ad apprezzare i doni della civiltà. Il simbolo con cui viene rappresentato è la falce, lo strumento del mietitore. I Romani collegavano Saturno all’abbondanza e alla ricchezza e tutti gli anni, dal 17 al 23 dicembre, si celebravano in suo nome i Saturnali. Le feste coincidevano con il solstizio d’inverno, momento in cui i giorni cominciano a farsi più lunghi e le notti più corte, come a presagire la futura primavera. Durante la celebrazione dei Saturnali si accendeva il fuoco sull’altare di Saturno(il fuoco che simbolizza il Sole), si facevano sacrifici in suo onore e tutti portavano le loro offerte. Durante i Saturnali si smetteva di combattere, si sospendevano le esecuzioni delle condanne a morte, gli schiavi potevano sedersi a tavola e i padroni li servivano: era un ritorno alla felice Età dell’Oro che Saturno aveva portato agli uomini, l’età in cui tutti erano uguali, liberi e felici. E ancora durante i Saturnali, venivano sciolti i vincoli che per tutto l’anno avvincevano la statua del dio al suo piedistallo, per impedirgli di abbandonare la città, portandosi via la prosperità e l’abbondanza.

I Lupercali


I Lupercali (in latino Lupercalia) erano una festività religiosa romana che si celebrava il 15 febbraio, in onore di Fauno nella sua accezione di Luperco (in latino Lupercus), cioè protettore del bestiame ovino e caprino dall'attacco dei lupi.
I Lupercalia ricordano il miracoloso allattamento dei due gemelli Romolo e Remo da parte di una lupa che da poco aveva partorito; Plutarco dà una descrizione minuziosa dei Lupercalia nelle sue Vite parallele ("Vita di Giulio Cesare", cap. 61). I Lupercalia venivano celebrati nella grotta chiamata appunto Lupercale, sul colle romano del Palatino dove, secondo la leggenda, i fondatori di Roma, Romolo e Remo sarebbero cresciuti allattati da una lupa.

La festa era celebrata da giovani sacerdoti chiamati Luperci, seminudi con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia; soltanto intorno alle anche portavano una pelle di capra ricavata dalle vittime sacrificate nel Lupercale.
I Luperci, diretti da un unico magister, erano divisi in due schiere di dodici membri ciascuna chiamate Luperci Fabiani ("dei Fabii") e Luperci Quinziali (Quinctiales, "dei Quinctii"), ai quali per un breve periodo Gaio Giulio Cesare aggiunse una terza schiera chiamata Luperci Iulii, in onore di se stesso.
In età repubblicana i Luperci erano scelti fra i giovani patrizi ma da Augusto in poi la cosa fu ritenuta sconveniente per loro e ne fecero parte solo giovani appartenenti all'ordine equestre.
Plutarco riferisce nella vita di Romolo che il giorno dei Lupercalia, venivano iniziati due nuovi luperci (uno per i Luperci Fabiani e uno per i Luperci Quinziali) nella grotta del Lupercale; dopo il sacrificio di capre (si ignora se una o più di una, se di genere maschile o femminile: secondo Quilici un capro) e, pare, di un cane (che è cosa normale se i Luperci sono "quelli che cacciano i lupi"), i due nuovi adepti venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle capre appena sacrificate. Il sangue veniva quindi asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra, al che i due ragazzi dovevano ridere.
Questa cerimonia è stata interpretata come un atto di morte e rinascita rituale, nel quale la "segnatura" con il coltello insanguinato rappresenta la morte della precedente condizione "profana", mentre la pulitura con il latte (nutrimento del neonato) e la risata rappresentano invece la rinascita alla nuova condizione sacerdotale.
Venivano poi fatte loro indossare le pelli delle capre sacrificate, dalle quali venivano tagliate delle strisce, le februa o amiculum Iunonis, da usare come fruste. Dopo un pasto abbondante, tutti i luperci, compresi i due nuovi iniziati, dovevano poi correre intorno al colle saltando e colpendo con queste fruste sia il suolo per favorirne la fertilità sia chiunque incontrassero, ed in particolare le donne, le quali per ottenere la fecondità in origine offrivano volontariamente il ventre, ma al tempo di Giovenale[ ai colpi di frusta tendevano semplicemente le palme delle mani.
In questa seconda parte della festa i luperci erano essi stessi contemporaneamente capri e lupi: erano capri quando infondevano la fertilità dell'animale (considerato sessualmente potente) alla terra e alle donne attraverso la frusta, mentre erano lupi nel loro percorso intorno al Palatino. La corsa intorno al colle doveva essere intesa come un invisibile recinto magico creato dagli scongiuri dei pastori primitivi a protezione delle loro greggi dall'attacco dei lupi; la stessa offerta del capro avrebbe dovuto placare la fama dei lupi assalitori. Tale pratica inoltre non doveva essere stata limitata al solo Palatino ma in epoca pre urbana doveva essere stata comune a tutte le località della zona, ovunque si fosse praticato l'allevamento ovino.
Nel giorno dei Lupercalia, infatti, l'ordine umano regolato dalle leggi si interrompeva e nella comunità faceva irruzione il caos delle origini, che normalmente risiede nelle selve.
 
Top
Aulo Sebastiano
view post Posted on 18/6/2010, 12:09




Grazie per l'infarinata Fato, più o meno le sapevo, ma ripassarle ogni tanto fa solo bene XD
 
Top
2 replies since 18/6/2010, 10:04   8871 views
  Share